lunedì 9 febbraio 2015

A volte ritONDAno

A volte incontriamo delle onde che ci appartengono. Si sente già dal momento in cui dai loro la mano. Anzi, a volte anche prima. Basta uno sguardo o un odore.
Onde che ci appartengono, simili in frequenza e in ampiezza. Simili in colori ed esperienze. Simili in stati e pensieri.
Appartengono, non nel senso di "possessione", ma di appartenenza. Di familiarità.
Prendi le onde del mare: a volte staresti ore steso in acqua a sentire il movimento provocato dalla marea. Che arriva e va via. Ti sfiora, ti accarezza, ti riempie, ti incanta, ti travolge, ti coinvolge.
Non vale solo per le onde deboli quando il mare è "una tavola", almeno per me. Vale anche quando è più mosso, quando le onde che arrivano a riva si frangono sugli scogli con quel chiassoso fracasso simile ad una frustata, o ad uno schianto.
Prendi le onde sonore: a volte staresti ore steso ad ascoltare la musica new age, o l'elettronica di un certo tipo, con quelle onde lente e avvolgenti che ti fanno chiudere gli occhi il primo pomeriggio e quando li apri ti accorgi che è sera inoltrata. E sei rilassato, leggero. A volte staresti ore a gridare e saltare ascoltando onde di quelle ad alta frequenza, che entrando nelle molecole del corpo, spostandole in maniera disordinata, frenetica, caotica, entropica ti fanno vivere.
Prendi le onde luminose: a volte staresti ore a guardare il colore del cielo di un azzurro brillante, o di una campagna irlandese verde smeraldo, o del mare d'inverno, con quel suo grigio tempestoso, verde petrolio e blu cobalto. A volte staresti ore a guardare in uno schermo l'alternarsi rapido dei colori, così rapido che il cervello lo percepisce come immagini. E allora guidi una macchina superveloce, usi armi futuristiche (che a volte anche per gioco non si dovrebbe fare), fai correre come matti delle riproduzioni di giocatori di calcio con nomi altisonanti e impersoni un cavaliere che deve uccidere il drago o il demone di turno per liberare le sue terre dall'oppressione che essi causano.


Insomma, le onde. Sono affascinato da queste forme di energia. E a volte incontriamo onde che non sentiamo da tanto tempo. Che ci hanno dato belle sensazioni e che non abbiamo avuto la forza o il coraggio o solo la volontà di chiedere di sentirle ancora. Poi la vita è un continuo allontanarsi e avvicinarsi e così quelle onde le avverti d'improvviso, ancora presenti come anni prima, quando ti mancavano le parole e il respiro si bloccava, quando l'endocrinologia dominava la neurologia. E con quell'onda tornano ricordi di un tempo, in cui abitavo a Roma, quando lavoravo al Cus e quando arrivavo li la mattina trovavo una persona chiara, limpida e pulita, appiccicata al termosifone che aspettava per cominciare la pallavolo amatoriale. Ma questa è un'altra storia. 

lunedì 28 aprile 2014

La matematica in una opinione

Ho finalmente capito perché non vado d'accordo con la matematica.
Sempre mi sono sentito dire che è colpa degli insegnanti se non si riesce in una materia. Poche volte invece ho sentito dire che la riuscita in un compito dipende da sè stessi.
In ogni caso, ognuno è libero di vederla nel proprio modo. Qualcuno ammetterà che la colpa è dell'insegnante, qualcun altro della propria persona.
In matematica al liceo, non andavo bene. Spesso avevo il 5 in pagella, qualche volta il 6, raramente più di quello. C'è da sottolineare che nei primi 3 anni di liceo abbiamo cambiato 3 insegnanti, e questo di certo non aiuta a indirizzare lo studente su una via. Ciascun insegnante, ma ciascuna persona in generale, conosce la propria via meglio delle altre. Per questo proporrà sempre la propria. Principio di conoscenza ed economia delle energie. Al primo anno ho avuto un ingegnere, non ho un bel ricordo di lui, sia come docente che come persona. (devo studiare il termine "come persona", non mi piace, penso si possa fare di meglio.) Al secondo anno una insegnante (che ho rivisto al terzo anno quando prendevo lezioni private il pomeriggio) che mi piaceva molto. Chiara e diretta. Semplice ed efficace. Poi al terzo anno quella definitiva che ci insegnava anche fisica. Il fatto è che in matematica avevo 5 e in fisica avevo 8, e la prof in questione mi metteva sistematicamente il 6 in matematica e il 7 in fisica, per farmi un favore. Che per inciso non ho mai chiesto, anzi preferivo leggere quell 8 in fisica che quel 6 in matematica.
Vabbe comunque. Dove voglio andare a parare?
Ricordo vagamente le esercitazioni in classe, quelle a casa, e quelle alla lavagna. (una volta chiesi sarcasticamente alla prof, come mai i "problemi" fatti alla lavagna riuscissero sempre, mentre a casa mai e lei mi rispose seriamente "che nn ci impegnavamo abbastanza", vabbe...). Ma ricordo molto bene che in matematica e in fisica, devi obbligatoriamente risolvere dei problemi. A partire dalla scuola elementare, quando ti fanno contare le mele rosse e quelle gialle, fino al liceo dove devi calcolare un logacoso di un numero irrazionale, moltiplicato per un numero immaginario considerando il coseno e il seno eccetera eccetera. Non so bene cosa ho scritto e se abbia un senso dato il mio mortale odio per la matematica. Quindi insomma, sti problemi in continuazione, problemi su problemi su problemi. E per superarli devi trovare la soluzione. Devi farlo attraverso l'utilizzo di dati e formule che sono presentati nella traccia e/o che impari a memoria.
Ora, io sono un sognatore, è vero. Ma di certo non mi metto a sognare ste cose, quindi i numeri immaginari puoi capire come mi stanno sulle palle. Chi può immaginare dei numeri irrazionali ad esempio? E perché si chiamano così? Esistono dei numeri razionali forse! Allora perchè non chiamarli diversamente? Non so, "numeri estrosi" o "numeri creativi" o "numeri sentimentali". Boh... irrazionali, mi da di qualcosa che non può essere scoperto con la ragione. Quindi appartiene al lato sinistro del cervello? Troverò spiegazione a queste domande che mi pongo da 20 anni.. ?
Torniamo a noi. Il problema e la ricerca della soluzione.
Ammettiamo il caso che il termine "problema" sia il migliore da usare per le esercitazioni. Se cerco su un dizionario la parola "problema", esce ciò: questione, situazione, caso difficile da risolvere e che genera preoccupazione. E qui mi viene da pensare. Perché io a 15 anni, devo preoccuparmi di risolvere qualcosa che genera preoccupazioni? A 15 anni non voglio preoccupazioni, voglio suonare! voglio leggere! voglio correre, saltare, voglio gridare e arrabbiarmi perchè la mia fidanzata ha baciato un altro, voglio andare con il motorino, con la bicicletta, con i pattini, voglio andare a mare e stare con gli amici. Ma di certo non voglio occuparmi di qualcosa che mi rende "preoccupato".
Allora ripensando al mio passato mi chiedo, può essere che la matematica non mi è piaciuta per una semplice questione di termini? Tante volte diciamo che una cosa "fa schifo" quando invece vorremmo dire che non è di nostro gradimento. O che è "dolce" per dire che è sciapa. Che è grigia, per dire che è argentata. Insomma una questione di significato di un termine.
Quindi propongo di cambiare la questione. Perchè invece di fare i problemi a casa, non si possono fare le "esercitazioni"? O fare le soluzioni?!?!?!?  Sarebbe spettacolare allora la matematica! Oggi abbiamo da trovare 4 soluzioni! E tutti parlerebbero in classe di: che soluzione hai trovato? Invece di come hai fatto il problema? Non sarebbe più emotivamente affrontabile?
Questo è forse il motivo per cui in Fisica andavo bene. Perché i problemi erano chiamati esperimenti, esercitazioni, ma DI CERTO NON PROBELMI!!!!!!
Nessuno vuole problemi nella vita. Tutti vogliono soluzioni. E cos è una soluzione, se non la risoluzione di un problema? Proprio perchè andavo bene in Fisica, quando ero al quinto anno ero indeciso se iscrivermi all università di Fisica a Trieste o Scienze Motorie a Roma. Ma questa è un'altra storia..




giovedì 27 febbraio 2014

Che guardi in una donna? Gli occhi e il sorriso!

Abbasso la maniglia, tiro la porta, metto un piede nel tensostatico e mi arriva una palla, che rimbalza a un metro dai miei piedi. La blocco, guardando verso il basso. Poi alzo la testa per capire a chi fosse sfuggita ed è la fine... o l'inizio...
Una ragazza con gli occhioni grandi e un sorriso da qui a qua (sarebbe da un orecchio all'altro), con i capelli corti mi guarda perchè rivuole la palla. Io sorrido, la restituisco e penso: "a fine partita voglio sapere come si chiama". Poi vado verso la panchina, saluto tutti e la partita comincia.
Ma la curiosità è troppo forte. Sbircio sul referto. Lo so, non si fa. Ma non ce la facevo, oltretutto sarei dovuto andare via prima. Poi di nuovo perde la palla tra un set e l'altro e la restituisco. Mi guarda, io le sorrido e lei mi riguarda come a dire: "e questo che cazzo vuole?!?!?!?" Sorrido ancora di più e penso: "questa è una tosta"

Poi il resto è un altra storia.

Quella mattina ero sovrappensiero. Tante cose per la testa, tante situazioni, tante domande, tante cose sul futuro. Come al solito quando ho un chiodo fisso, non penso ad altro. E penso anche ad altro. Non so spiegarlo. E' come quando devi sistemare casa: lavare i piatti, e spazzare, e spolverare. Una cosa che ne racchiude tante altre. La partita di pallavolo, mio fratello a Londra, lo studio per il convegno, il lavoro, mia madre che cucina, il rifornimento della macchina. Fanno tutte capo al mio futuro, prossimo, vicino, remoto. Come quando apri una cartella del pc, convinto di trovare un file, e invece trovi altre mille cartelle. E hai bisogno di tempo per elaborare e capire quale aprire. In questo stato d'animo e mentale ho aperto quella porta. E in un attimo, tutte le finestre si sono chiuse. Tutti i pensieri sono stati ricacciati indietro. Tutte le domande, sono state sospese con un punto esclamativo alla fine della frase "...mi sono innamorato!" Che ormai è una frase goliardica e con la quale mi prendono per il culo tutti i miei amici.
Ma in parte è così! Innamorarsi vuol dire farsi colpire da qualcosa. Da un aspetto o da tutti gli aspetti di una persona o di una situazione, uno sport ad esempio. Uno sguardo mi basta, o il suono della voce o la forma del naso, non so dire bene. Certo non è l'innamoramento classico che ti porta all'altare. E' un innamoramento veloce, un pugno nella pancia, un palo che non vedi mentre cammini sul marciapiede, un qualcosa che non ti aspetti e che riesce a catturare la tua attenzione all'istante. E ovviamente si parla solo di aspetto esteriore. Magari parlandoci la persona cala di interesse talmente tanto che preferiresti parlare con la tua penna piuttosto che con lei.
Ma in questo caso nn è cosi. E' stato a pelle. Quella sensazione che mi fa venire un brivido lungo la schiena e che mi fa pensare: "la devo conoscere, perché so che mi piacerà". Quella sensazione che ti fa scegliere di fare un cambio in battuta per vincere una partita. Quella sensazione di quando stai li davanti alla platea e tutti ti guardano e sai che andrà splendidamente. Quella sensazione in cui prendi la chitarra in mano perché ti è venuta un'idea. Quella insomma.

Vabbè. E poi ci parli e ti accorgi che sei un idiota ad aspettarti certe cose, perché ti fai troppe pippe mentali. E poi invece continuando a parlarci senti di nuovo il brivido. Che poi parlarci è un parolone... ai giorni nostri si chatta. Troppo forse. Per me sicuramente si chatta troppo. Ma con una persona che non conosci sarebbe un appuntamento al buio, quindi che fai? La contatti e le chiedi di uscire? Non sia mai, cosa può pensare.
Ma dato che non ci so fare con le donne, mi comporto sempre alla stessa maniera, come sono io. E quindi scherzando e pensando di aver scritto cose idiote, parlando da solo fino a far addormentare chi c'è dall'altra parte, facendo lo splendido e sistematicamente smentendomi.
Sono cosi, che ci posso fare? Almeno faccio ridere, su questo non c'è dubbio. Che poi, bisogna vedere se è positivo o no...
Beh.
Ho scritto un post di merda per un evento bellissimo. Fa niente. Almeno resterà ai posteri che non ero uno scrittore o un poeta solo perché scrivo su un blog e qualche pensiero da quando andavo al liceo. Ma questa è un'altra storia.

sabato 25 gennaio 2014

Non lo so.

Non è abbastanza. Sognare, crederci e impegnarsi, non basta.
E' un minimo, ma così come la benzina da sola non avvia il motore, sognare, crederci e impegnarsi non basta.
Che manca? Che altro c'è che manca?
Sono ossessionato da questa domanda.
Manca il tempo? La pazienza? Della serie "Goog things come to those who wait!"?
Manca lo spazio? Il posto dove realizzare qualcosa? E dov è questo spazio? questo posto, dov è?
Manca qualcuno? Una persona che possa insegnarmi, accogliermi, e che io possa sostenere e comprendere?
Manca qualcosa? Manca sempre qualcosa. L'equilibrio, manca.
Manca l'equilibrio e il centro di gravità cambia continuamente. Mi servirebbe una stabilità in questa vita. Qualcosa che mi dia una certezza in questo momento. Sono stanco di mettermi sempre in discussione e mettere sempre tutto in discussione. Vorrei forse non pormi domande sulle scelte mie e degli altri, sul passato e sul presente, su cosa pensa la gente e cosa vuole la gente, su cosa voglio io e perchè, su questo e quell'altro. Vorrei per un giorno, adesso, avere un bastone.
Una sicurezza c'è, è vero, ma non è abbastanza per soddisfare il bisogno di libertà, anzi. Forse è quella è una cosa che mi lega. Ma poi cosa intendo per libertà? Volare? Camminare? Fare ciò che voglio? Essere chi voglio? Non lo so.
So che così non va.
Sogno, ci credo, e mi impegno. Ma non basta.
Nè da solo, nè in compagnia.
Come quella volta che decisi di trasferirmi a Bisceglie dopo 11 anni vissuti a Roma, di cui gli ultimi due in affitto. Con i miei tempi, i miei spazi. Quasi.

martedì 21 gennaio 2014

D.O.

16 gennaio 2014
Arrivo puntuale, anzi in anticipo, in sede. Sono vestito in tuta e indosso un cappellino grigio di lana. Nel corridoio della segreteria, al secondo piano, le voci si mischiano, anche se bisbigliate. I colleghi/e sono li, quelli che devono discutere la tesi oggi. Qualcuno ripete e qualcuno si guarda allo specchio del bagno. Qualcuno in ritardo. La segreteria in poco tempo diventa un via vai di gente. Io li fermo che saluto e incoraggio. Sono incantato dall'energia e tensione che si respira, mezz'ora prima dell'inizio delle discussioni.
Il tempo passa velocemente e mi sistemo in aula magna, in modo da ascoltare e vedere i due gruppi che parleranno. Incomincia il rito. Si parla, si clicca sul pc per scorrere le slide, si parla, si clicca, si parla e si clicca. Poi applausi. Domande della commissione e ancora si parla e si clicca.
Poi il secondo gruppo. Anche loro, stessa procedura, si parla e si clicca. Applausi, domande, risposte e clic. Anzi clics (plurale?!?!?!?!). Infine applausi per i due gruppi. Ci si rilassa, ci si fa gli auguri e i complimenti. E vado via, verso casa, aspettando il giorno dopo. Sto bene. Solo solo un poco teso, ma di quell'energia positiva e propositiva. Quella che ti fa svegliare una domenica mattina a 13 anni per fare delle gare di atletica in un paese vicino, consapevole dell'importanza di quel momento. Teso, eppure rilassato, concentrato. Forse quasi Zen potrei dire. Il bersaglio è fermo e tu incocchi la freccia, ad occhi chiusi, perché il bersaglio lo conosci bene, e hai perfettamente idea di come, quando e dove tirare.

17 gennaio 2014
Arrivo trafilato, un po accaldato in sede. Purtroppo i mezzi di Roma sono bizzarri; quando sei rilassato e te la prendi comoda, sono puntuali e precisi, quando controlli l'orologio ogni 30 secondi, fanno ritardi incredibili. Vabbe comunque sono arrivato in sede un minuto prima dell'appuntamento. e tanti altri mancavano.
Sguardo ai colleghi, amici che elegantissimi devono discutere, un saluto rapido alla segretaria. Mi fermo e mi siedo appoggiato con i gomiti sulla scrivania della segreteria, a chiacchierare per cercare di distendere la mente e le idee. Entra un prof e mi fa i complimenti per i disegni. La voce incespica in uno strano grazie, pronunciato come se fossi un cinese balbettante, lui insiste con delle battute e quello che riesco a pronunciare è un prolisso, impavido e agognante: "SI".
Tutti in aula magna. Si comincia. Mi preparo vicino alla postazione perchè sono il primo. Mi guardo intorno e un prof si avvicino per dirmi che una slide non funziona bene. Penso "ok, no problem, ora risolviamo" e invece la mia bocca produce un: "ok e come facciamo?". Lui mi aiuta, considerando la mia situazione di agitazione crescente e io accanto a lui che annuisco, perchè avrei fatto le stesse cose che ha fatto lui, se avessi avuto la capacità di ragionare. Ma la mia mente è bloccata sul bersaglio. Target Locked, come in un gioco di aerei che facevo quando avevo 15 anni, al pc. Tutto pronto. Mi allontano per lasciare la parola al relatore, il direttore della scuola. Mi avvicino, carico come mai forse nella mia vita. Carico di quell'energia, che da 6 anni è confluita in una azione. Di quell'energia di tutti i compagni che sono li a guardare e ascoltare quello che stai per dire. Di quell'energia che mi ha unito ai compagni, alcuni anche amici. Di quell'energia dei tuoi genitori che ti guardano, dei docenti che sanno il lavoro e i sacrifici che facciamo, delle famiglie dei colleghi e degli amici che conoscono benissimo le rinunce e le piccole soddisfazioni che questi 6 anni hanno comportato. Di quell'energia che ti fa dare il massimo perché per qualche minuto, la sala intera ascolterà quello che stai per dire. Di quell'energia di quando sei in campo e sugli spalti gremiti di gente, il pubblico è li per vedere la tua prestazione. Non si può sbagliare. Matematicamente impossibile.
Ringrazio Giacomo e comincio a parlare. La voce pronuncia in automatico parole provate e riprovate nei 15 giorni precedenti. Qualche sorriso, qualche slide non funziona perfettamente, ma è tutto ok, non esiste la perfezione. Finisco di parlare con un "Grazie anche da parte di Ophelia". Parte l'applauso, sorrido, ancora non capisco. Quando tutto si placa una domanda da un prof, di poter vedere le tavole disegnate per la tesi, mi avvicino con la cartellina verde acido e mostro, spiego alla commissione e al pubblico, come fosse la cosa più normale del mondo. Come fossi li per bere dell'acqua. Poi applausi e mi siedo.
Lentamente ritorno a sentire il cuore, il respiro, la testa, le mani e tutto il resto del corpo. Lentamente mi accorgo che è finito un percorso. Vedo il traguardo a pochi metri, posso rallentare e gustarmi questo momento.
Parlano i colleghi, parlano delle loro discussioni, delle loro ricerche, delle loro fatiche e mi accorgo che ci accomuna sopra ogni altra cosa, la voglia di raggiungere questo traguardo. Gli sguardi di comprensione, di tensione e di rilassatezza si alternano sul palco.
Il giorno dopo, taglio il traguardo. 20 gennaio 2014, D.O. Mentre una collega legge le parole che un medico di nome Ippocrate ha pronunciato per primo diversi millenni fa, ti accorgi di quanto è importante il lavoro che hai scelto di fare. Ma questa è un'altra storia.




domenica 15 dicembre 2013

Vorrei essere musica.

E' la terza volta che comincio a scrivere questo post. Ora non torno più indietro. Quel che viene sarà solo quello che penso senza filtro. Sono stato stasera ad un concerto Gospel. Uno di quelli di Natale, uno dei tanti. Uno di quelli in cui un politico parla dello stare insieme, del fare le cose insieme eccetera, in una chiesa, come tutte, fredda. 
O almeno credevo.
La chiesa è stata fredda per un quarto d'ora circa. Poi una ragazza introduce un gruppo di persone, i cantanti, i musicisti. Applausi. Silenzio. Una nota piano. Una voce piano. Pianissimo.
E poi il caldo.
Nel Silmarillion, uno dei libri di Tolkien, viene descritta la creazione del mondo. Quello immaginario in cui vivono gli elfi, i nani, gli hobbit. E inizia così: Eru, l' Uno, creò gli Ainur, i Santi. Ed essi intonarono per lui una musica. Iluvatar, che in elfico è l'Uno rese visibile il canto degli Ainur ed essi diedero vita al mondo. 

La chiesa fredda, piena di gente si è riscaldata di energia. Energia creata dalle voci di persone che, unite in un obiettivo, in una bandiera, in una persona, è stata donata agli spettatori. Molti avranno visto un bel concerto, Alcuni hanno visto delle persone unite dalla passione per il canto. Pochi avranno visto negli occhi dei cantanti la scintilla divina. Io ho visto me stesso, in quello che faccio tutti i giorni. Nonostante i problemi, nonostante gli stenti, nonostante i litigi, le difficoltà, i dubbi, le domande, i sogni lontanissimi. Ho visto che si può fare. E ho visto tre ragazze che ho conosciuto qualche anno fa, dare vita a un sogno. Cominciato forse per gioco, continuato per passione. Spero che possa continuare a essere il punto di incontro delle loro anime, perché meritano di stare insieme, meritano di esprimere quell'energia. Meritano di creare mondi. 

Rileggo quello che ho scritto. 
Non sono bravo con le parole, non so esprimere quello che ho provato. Ho sentito l'armonia, la pace, lo studio, la dedizione, la voglia di stare insieme, la professionalità. Ho visto la serenità, il divertimento, i sorrisi, gli sguardi complici. Poi ho chiuso gli occhi perché non volevo farmi influenzare da quello che vedevo. Mi erano già cadute due lacrime. Impossibile per me. Non c'è vento dentro una chiesa.
Ad occhi chiusi, mi sono concentrato e ho visto la loro luce. Non sono un fanatico. Ho visto la luce che emanavano. Bianca e gialla. Forte come quando guardi il sole per qualche secondo e diventi cieco. Come quando esci dalla galleria dell'autostrada un giorno d'estate. Come quando fai meditazione e pensi solo a respirare. Luce, energia. Chissà di che colore è l'energia. Ho la tendenza da alcuni anni, a immaginare la percezione di qualcosa. Immaginare un cuscino rosso. Il colore, la morbidezza, la consistenza, l'odore eccetera. Ora so che suono ha l'energia. So che sensazioni provoca. Non era il freddo che mi faceva tremare. Non soffro il freddo, chi mi conosce lo sa bene. Non era il vento che mi faceva lacrimare. E per giungere a questo punto, quello che ho sentito ha trafitto tutte le mie barriere. Mille e mille. E ho aperto gli occhi e li ho asciugati con l'indice. Ho fatto entrare la musica ancora e ancora. Conscio della sensazione di libertà che mi stava facendo provare. 
Ultimamente ho spesso pensato alle vibrazioni. Al fatto che ogni cosa che è in vita emette vibrazioni, onde. E noi siamo costantemente attorniati da queste onde. Non ci facciamo caso. L'energia è un onda. E qualsiasi movimento che eseguiamo determina un'onda dei tessuti, qualsiasi parola che emettiamo determina un' onda che riusciamo a interpretare tramite un apposito apparecchio nell'orecchio che percepisce le minime variazioni di quest'onda e le trasduce (credo si dica così) in un segnale elettrochimico che interpretiamo come suono. Non è meraviglioso? L'uomo è fatto per percepire le onde. Non mi stupisco più quando una musica mi piace e un'altra mi fa schifo. Siamo diversi e questa diversità ci rende più o meno sensibili a certe onde. 
Anche la visione funziona con onde. Ma non divaghiamo. 
Energia. Conosco che suono ha. E forse che forma. 
Esco a fine concerto, dopo aver salutato le mie amiche. E penso di essere un alcolizzato che ha nuovamente ceduto a un bicchierino. Un alcolizzato forse sa che gli fa male bere. Forse non lo fa per stare male. Forse lo fa per capire se ne è uscito. Un bicchierino non ha mai ucciso nessuno. O no?
E ritorno a pensare che certe persone sono affini, perché uno emana onde percepibili dall'altro/a come positive. E che se fosse per me possibile scegliere di non essere umano, vorrei essere musica. Il suono dell'energia. Il suono che studieresti. Il suono che produci quando parli. Il suono della creazione. Grazie, sei un pezzo della mia anima. 

domenica 12 maggio 2013

10 minuti: racconto breve.


Luce. Buio. Buio.
Luce. Buio. Buio.

“Devo ricordarmi di cambiare la lampadina del pianerottolo. Questo ritmico alternarsi di luce-buio mi rende matto. Nei film di alta tensione, con una camera puntata alle mie spalle, e una musica che lentamente sale verso suoni più acuti, mi aspetterei il brillare fugace di una lama di coltello, e gli occhi del mio assassino riflettere sulla lama prima che questa si conficchi definitivamente nella mia vita. Senza mostrare nient’altro di lui. Chi vede il film non deve sospettare di nessuno e sarebbe costantemente alla ricerca degli occhi inquadrati attraverso il pugnale.”
Richiudo la porta di casa alle mie spalle e il freddo di metà novembre mi accoglie nel monolocale in cui vivo. Al quinto piano, condominiale. Le chiavi sulla mensola portaoggetti, il cappotto lo tengo ancora addosso. Prima voglio accendere il riscaldamento e farmi una bella tazzona di the caldo. Lo scroscio dell’acqua contro il liscio interno della tazza di ceramica verde che mi hanno regalato da Barcellona. Sulla parete esterna la rappresentazione della Sagrada Familia. “Basta così.”. Una mano al fornello e l’altra accompagna la tazza a svuotarsi nella teiera che è pronta con il coperchio rovesciato. Adoro la luce blu del fuoco dei fornelli. Me la godo spegnendo la luce giallastra dell’ingresso. Fuori si vede in lontananza un lampo. Richiudo la teiera.
“Deve esserci un neon rotto anche in cielo…”
Il tuono si sente come ovattato. Ancora è lontano. Ma comunque se ne avverte la potenza. Un lungo e greve suono roboante che nel silenzio e nella penombra riesce a penetrare il corpo con le sue onde basse e lente.
Aspettando il fischio della teiera, accendo il televisore. Mi colpisce subito la pubblicità dei giocattoli per natale. Bambole, macchinine, giochi di società, videogiochi, consolle, pupazzi e mostri di ogni sorta. “Pubblicità infinita…” Cambio canale. Calci e pugni tirati in maniera sconsiderata da un agente texano con tanto di cappello. “Come fai a non scrivere un libro con le cose più assurde che riesce a fare questo personaggio?!” Cambio canale. Un oggetto non ben identificato viene venduto a un prezzo di occasione se si acquista per telefono. “Ma siamo nell’epoca di internet, perché ancora esistono le televendite?” Il fischio arriva. Sale, sempre più acuto, nel giro di pochi secondi. Accendo la luce del forno, quella in alto, vicino la kappa, con il clic morbido che illumina i fornelli. Spengo il fornello. Bustina o erbe? Le porto al naso. Limone da una parte, frutti di bosco dall’altra. Voglio essere dolce stasera.
Erbe siano.
Cassetto, cucchiaino. Lo immergo nel morbido scroscio delle foglie secche che gentilmente si scostano al passaggio dell’utensile. Arrivo al fondo e risalgo con una piccola inclinazione. Qualche foglia rimane nella concavità morbida del cucchiaio e qualche altra cade. Non vuole lasciare il gruppo. Apro il coperchio della teiera e verso il contenuto del cucchiaio. Ora c’è da aspettare.
Lascio il cappotto su un attaccapanni sempre troppo carico. “ Devo decidermi a sistemare le giacche leggere da un’altra parte, o prima o poi qui cade tutto.”  La televisione non mi aiuta in questa serata. Proviamo con lo stereo.
Anita Baker. Sembra che questa penombra voglia obbligare il mio animo a essere blu questa sera. La stanza si illumina per un attimo. E poi un tuono. Questa volta più forte di prima. Più cupo. Scuote i nervi, i vasi, i tendini.
Mi avvicino alla finestra della cucina, le macchine passano costantemente in strada, qualcuno si appresta a rincasare con un ombrello a spicchi colorati, correndo perché arrivano le prime gocce. "Ma è vera questa cosa che se corri sotto la pioggia ti bagni maggiormente che se cammini?" Me lo hanno detto da piccolo e non mi sono più informato.  "Certo non sono un fisico, ma la spiegazione che mi do è che essendo un poco inclinato in avanti, la superficie corporea che si offre al cielo è maggiore… mah chissà.."
Nel palazzo di fronte qualcuno sta guardando la tv. Me lo dice la luce della stanza buia che cambia continuamente colore dal celeste al rosa al verde. Alternandolo con il nero, dello stacco tra le pubblicità.
Chissà se qualcuno starà guardando me alla finestra e mi spia dalla sua oscurità come sto facendo io con il mondo. Cosa penserebbe vedendomi?
L’infuso deve esse pronto, l’odore penetra per le fosse nasali e si aggancia ai recettori che, pronti, inviano lo stimolo elettrico attraverso la lamina cribrosa al bulbo olfattivo e da qui indietro verso l’area limbica. "Che poi area limbica, del limbo… che vuol dire? Dovrò capire questa cosa." Mi avvicino alla teiera, la sollevo e ne verso il contenuto nella tazza spagnola. 
Odoro. 
"Da piccolo mangiavo le more appena prese dai rovi, e nonostante le mani piene di graffi continuavo a cogliere, pulire strofinandole sui pantaloni e lanciare il frutto nero, globulato, in alto per prenderlo al volo direttamente con la bocca. Quanto tempo è passato?"
Intanto un altro lampo, illumina la cucina e il tavolino svedese con quel caratteristico segno del coltello, come una cicatrice e le sedie di plastica richiudibile. Baker mi coccola, il divano mi chiama, mi siedo. Chiudo gli occhi e porto la tazza bollente alla bocca, soffio e il vapore appanna gli occhiali. Sorrido, ci casco sempre! Aspetto qualche altro secondo e poi lentamente e con coraggio faccio passare il liquido scuro dalla tazza attraverso il labbro inferiore dentro la cavità orale. 
Un brivido si diffonde attraverso il collo, e il cuore si scalda. Poi più in basso nel diaframma, nello stomaco e nella pancia. Ma non si ferma e continua verso le cosce e si ferma solo quando arriva ai piedi. Mi accorgo di non avere ancora tolto le scarpe. Prima il tallone sinistro sulla punta del piede destro, tiro come fosse un apribottiglie, e poi il contrario e ora anche i piedi sono liberi. Un altro sorso.
Silenzio.
Un altro sorso. 
Luce bianca.
Il suono profondo questa volta viene seguito da un gracchiare sordo e secco. Potente, istantaneo, e poi ancora il rumore profondo. E la pioggia finalmente bussa al vetro della finestra della cucina. Puntuale. L’aspettavo.