domenica 15 dicembre 2013

Vorrei essere musica.

E' la terza volta che comincio a scrivere questo post. Ora non torno più indietro. Quel che viene sarà solo quello che penso senza filtro. Sono stato stasera ad un concerto Gospel. Uno di quelli di Natale, uno dei tanti. Uno di quelli in cui un politico parla dello stare insieme, del fare le cose insieme eccetera, in una chiesa, come tutte, fredda. 
O almeno credevo.
La chiesa è stata fredda per un quarto d'ora circa. Poi una ragazza introduce un gruppo di persone, i cantanti, i musicisti. Applausi. Silenzio. Una nota piano. Una voce piano. Pianissimo.
E poi il caldo.
Nel Silmarillion, uno dei libri di Tolkien, viene descritta la creazione del mondo. Quello immaginario in cui vivono gli elfi, i nani, gli hobbit. E inizia così: Eru, l' Uno, creò gli Ainur, i Santi. Ed essi intonarono per lui una musica. Iluvatar, che in elfico è l'Uno rese visibile il canto degli Ainur ed essi diedero vita al mondo. 

La chiesa fredda, piena di gente si è riscaldata di energia. Energia creata dalle voci di persone che, unite in un obiettivo, in una bandiera, in una persona, è stata donata agli spettatori. Molti avranno visto un bel concerto, Alcuni hanno visto delle persone unite dalla passione per il canto. Pochi avranno visto negli occhi dei cantanti la scintilla divina. Io ho visto me stesso, in quello che faccio tutti i giorni. Nonostante i problemi, nonostante gli stenti, nonostante i litigi, le difficoltà, i dubbi, le domande, i sogni lontanissimi. Ho visto che si può fare. E ho visto tre ragazze che ho conosciuto qualche anno fa, dare vita a un sogno. Cominciato forse per gioco, continuato per passione. Spero che possa continuare a essere il punto di incontro delle loro anime, perché meritano di stare insieme, meritano di esprimere quell'energia. Meritano di creare mondi. 

Rileggo quello che ho scritto. 
Non sono bravo con le parole, non so esprimere quello che ho provato. Ho sentito l'armonia, la pace, lo studio, la dedizione, la voglia di stare insieme, la professionalità. Ho visto la serenità, il divertimento, i sorrisi, gli sguardi complici. Poi ho chiuso gli occhi perché non volevo farmi influenzare da quello che vedevo. Mi erano già cadute due lacrime. Impossibile per me. Non c'è vento dentro una chiesa.
Ad occhi chiusi, mi sono concentrato e ho visto la loro luce. Non sono un fanatico. Ho visto la luce che emanavano. Bianca e gialla. Forte come quando guardi il sole per qualche secondo e diventi cieco. Come quando esci dalla galleria dell'autostrada un giorno d'estate. Come quando fai meditazione e pensi solo a respirare. Luce, energia. Chissà di che colore è l'energia. Ho la tendenza da alcuni anni, a immaginare la percezione di qualcosa. Immaginare un cuscino rosso. Il colore, la morbidezza, la consistenza, l'odore eccetera. Ora so che suono ha l'energia. So che sensazioni provoca. Non era il freddo che mi faceva tremare. Non soffro il freddo, chi mi conosce lo sa bene. Non era il vento che mi faceva lacrimare. E per giungere a questo punto, quello che ho sentito ha trafitto tutte le mie barriere. Mille e mille. E ho aperto gli occhi e li ho asciugati con l'indice. Ho fatto entrare la musica ancora e ancora. Conscio della sensazione di libertà che mi stava facendo provare. 
Ultimamente ho spesso pensato alle vibrazioni. Al fatto che ogni cosa che è in vita emette vibrazioni, onde. E noi siamo costantemente attorniati da queste onde. Non ci facciamo caso. L'energia è un onda. E qualsiasi movimento che eseguiamo determina un'onda dei tessuti, qualsiasi parola che emettiamo determina un' onda che riusciamo a interpretare tramite un apposito apparecchio nell'orecchio che percepisce le minime variazioni di quest'onda e le trasduce (credo si dica così) in un segnale elettrochimico che interpretiamo come suono. Non è meraviglioso? L'uomo è fatto per percepire le onde. Non mi stupisco più quando una musica mi piace e un'altra mi fa schifo. Siamo diversi e questa diversità ci rende più o meno sensibili a certe onde. 
Anche la visione funziona con onde. Ma non divaghiamo. 
Energia. Conosco che suono ha. E forse che forma. 
Esco a fine concerto, dopo aver salutato le mie amiche. E penso di essere un alcolizzato che ha nuovamente ceduto a un bicchierino. Un alcolizzato forse sa che gli fa male bere. Forse non lo fa per stare male. Forse lo fa per capire se ne è uscito. Un bicchierino non ha mai ucciso nessuno. O no?
E ritorno a pensare che certe persone sono affini, perché uno emana onde percepibili dall'altro/a come positive. E che se fosse per me possibile scegliere di non essere umano, vorrei essere musica. Il suono dell'energia. Il suono che studieresti. Il suono che produci quando parli. Il suono della creazione. Grazie, sei un pezzo della mia anima. 

domenica 12 maggio 2013

10 minuti: racconto breve.


Luce. Buio. Buio.
Luce. Buio. Buio.

“Devo ricordarmi di cambiare la lampadina del pianerottolo. Questo ritmico alternarsi di luce-buio mi rende matto. Nei film di alta tensione, con una camera puntata alle mie spalle, e una musica che lentamente sale verso suoni più acuti, mi aspetterei il brillare fugace di una lama di coltello, e gli occhi del mio assassino riflettere sulla lama prima che questa si conficchi definitivamente nella mia vita. Senza mostrare nient’altro di lui. Chi vede il film non deve sospettare di nessuno e sarebbe costantemente alla ricerca degli occhi inquadrati attraverso il pugnale.”
Richiudo la porta di casa alle mie spalle e il freddo di metà novembre mi accoglie nel monolocale in cui vivo. Al quinto piano, condominiale. Le chiavi sulla mensola portaoggetti, il cappotto lo tengo ancora addosso. Prima voglio accendere il riscaldamento e farmi una bella tazzona di the caldo. Lo scroscio dell’acqua contro il liscio interno della tazza di ceramica verde che mi hanno regalato da Barcellona. Sulla parete esterna la rappresentazione della Sagrada Familia. “Basta così.”. Una mano al fornello e l’altra accompagna la tazza a svuotarsi nella teiera che è pronta con il coperchio rovesciato. Adoro la luce blu del fuoco dei fornelli. Me la godo spegnendo la luce giallastra dell’ingresso. Fuori si vede in lontananza un lampo. Richiudo la teiera.
“Deve esserci un neon rotto anche in cielo…”
Il tuono si sente come ovattato. Ancora è lontano. Ma comunque se ne avverte la potenza. Un lungo e greve suono roboante che nel silenzio e nella penombra riesce a penetrare il corpo con le sue onde basse e lente.
Aspettando il fischio della teiera, accendo il televisore. Mi colpisce subito la pubblicità dei giocattoli per natale. Bambole, macchinine, giochi di società, videogiochi, consolle, pupazzi e mostri di ogni sorta. “Pubblicità infinita…” Cambio canale. Calci e pugni tirati in maniera sconsiderata da un agente texano con tanto di cappello. “Come fai a non scrivere un libro con le cose più assurde che riesce a fare questo personaggio?!” Cambio canale. Un oggetto non ben identificato viene venduto a un prezzo di occasione se si acquista per telefono. “Ma siamo nell’epoca di internet, perché ancora esistono le televendite?” Il fischio arriva. Sale, sempre più acuto, nel giro di pochi secondi. Accendo la luce del forno, quella in alto, vicino la kappa, con il clic morbido che illumina i fornelli. Spengo il fornello. Bustina o erbe? Le porto al naso. Limone da una parte, frutti di bosco dall’altra. Voglio essere dolce stasera.
Erbe siano.
Cassetto, cucchiaino. Lo immergo nel morbido scroscio delle foglie secche che gentilmente si scostano al passaggio dell’utensile. Arrivo al fondo e risalgo con una piccola inclinazione. Qualche foglia rimane nella concavità morbida del cucchiaio e qualche altra cade. Non vuole lasciare il gruppo. Apro il coperchio della teiera e verso il contenuto del cucchiaio. Ora c’è da aspettare.
Lascio il cappotto su un attaccapanni sempre troppo carico. “ Devo decidermi a sistemare le giacche leggere da un’altra parte, o prima o poi qui cade tutto.”  La televisione non mi aiuta in questa serata. Proviamo con lo stereo.
Anita Baker. Sembra che questa penombra voglia obbligare il mio animo a essere blu questa sera. La stanza si illumina per un attimo. E poi un tuono. Questa volta più forte di prima. Più cupo. Scuote i nervi, i vasi, i tendini.
Mi avvicino alla finestra della cucina, le macchine passano costantemente in strada, qualcuno si appresta a rincasare con un ombrello a spicchi colorati, correndo perché arrivano le prime gocce. "Ma è vera questa cosa che se corri sotto la pioggia ti bagni maggiormente che se cammini?" Me lo hanno detto da piccolo e non mi sono più informato.  "Certo non sono un fisico, ma la spiegazione che mi do è che essendo un poco inclinato in avanti, la superficie corporea che si offre al cielo è maggiore… mah chissà.."
Nel palazzo di fronte qualcuno sta guardando la tv. Me lo dice la luce della stanza buia che cambia continuamente colore dal celeste al rosa al verde. Alternandolo con il nero, dello stacco tra le pubblicità.
Chissà se qualcuno starà guardando me alla finestra e mi spia dalla sua oscurità come sto facendo io con il mondo. Cosa penserebbe vedendomi?
L’infuso deve esse pronto, l’odore penetra per le fosse nasali e si aggancia ai recettori che, pronti, inviano lo stimolo elettrico attraverso la lamina cribrosa al bulbo olfattivo e da qui indietro verso l’area limbica. "Che poi area limbica, del limbo… che vuol dire? Dovrò capire questa cosa." Mi avvicino alla teiera, la sollevo e ne verso il contenuto nella tazza spagnola. 
Odoro. 
"Da piccolo mangiavo le more appena prese dai rovi, e nonostante le mani piene di graffi continuavo a cogliere, pulire strofinandole sui pantaloni e lanciare il frutto nero, globulato, in alto per prenderlo al volo direttamente con la bocca. Quanto tempo è passato?"
Intanto un altro lampo, illumina la cucina e il tavolino svedese con quel caratteristico segno del coltello, come una cicatrice e le sedie di plastica richiudibile. Baker mi coccola, il divano mi chiama, mi siedo. Chiudo gli occhi e porto la tazza bollente alla bocca, soffio e il vapore appanna gli occhiali. Sorrido, ci casco sempre! Aspetto qualche altro secondo e poi lentamente e con coraggio faccio passare il liquido scuro dalla tazza attraverso il labbro inferiore dentro la cavità orale. 
Un brivido si diffonde attraverso il collo, e il cuore si scalda. Poi più in basso nel diaframma, nello stomaco e nella pancia. Ma non si ferma e continua verso le cosce e si ferma solo quando arriva ai piedi. Mi accorgo di non avere ancora tolto le scarpe. Prima il tallone sinistro sulla punta del piede destro, tiro come fosse un apribottiglie, e poi il contrario e ora anche i piedi sono liberi. Un altro sorso.
Silenzio.
Un altro sorso. 
Luce bianca.
Il suono profondo questa volta viene seguito da un gracchiare sordo e secco. Potente, istantaneo, e poi ancora il rumore profondo. E la pioggia finalmente bussa al vetro della finestra della cucina. Puntuale. L’aspettavo. 

giovedì 21 marzo 2013

Ricetta perfetta

Comunicazione. Che significa? Mettere in contatto.
Contatto. Che significa? Avere un tocco, un legame, un ponte.
Può essere fisico. Può essere visivo. Può essere spirituale.
Quando è fisico è la pelle. Tessuto di provenienza ectodermica. Altamente sensibile. E dove c'è contatto di pelle, dove c'è comunicazione di pelle, c'è comunicazione di sistemi nervosi.
Brividi, spasmi, tremolii, respiri accelerati, contrazioni involontarie. Se tutto funziona...

Quando è visivo è uno studiarsi, un accattivarsi, uno sfiorarsi, uno stuzzicarsi. E' mangiarsi o mordersi a vicenda. Se c'è contatto di pelle e contatto visivo tutto è amplificato. Se tutto funziona... c'è sintonia...

Quando è spirituale, sono le anime che si toccano, si rincorrono, si raggiungono, si coccolano, si comprendono. Quando c'è contatto di pelle, di occhi e di anime tutto è perfetto. Se tutto funziona... c'è sintonia... c'è complicità. In una parola c' è intimità.

Perchè solo se le anime partecipano durante l'amplesso si è sicuri di essere in due. Insieme. Nello stesso momento.
Fare l'amore, guardarsi, sorridere per i tremori e per gli spasmi, Questa non è perfezione? Questa non è comunicazione?
E non voglio barattarlo con niente.
Non voglio nient'altro, se non guardarti respirare affannosamente mentre ridi e tremi sotto le mie braccia.

Un pensiero, sviluppato durante una lezione che non riuscivo a seguire, una lezione "agitata" di pediatria. Ma questa è un'altra storia.

lunedì 4 febbraio 2013

Strade

E' un po' che non scrivo. Non che non abbia avuto storie da raccontare. Ne sono successe tante di cose. Solo che "scrivere per scrivere" non è per me. Se scrivo è perchè voglio lasciare un ricordo di un momento particolare. E ora voglio lasciare in nero, anzi in giallo, un racconto.
 Si cammina tante volte su una strada appena battuta da altri, e tante altre su un'autostrada. Tante volte dobbiamo aprire la via come gli esploratori con il macete, che tagliano le foglie delle piante tropicali di qualche foresta africana. Tante volte invece sembra di essere in balia della strada. Non la capiamo, non la vediamo. Semplicemente: camminiamo.
 Ho attraversato questo momento e forse ne sto uscendo ora. Il periodo da Novembre ad ora è stato un poco così. Di stordimento, ma anche di affanno. Come se stessi facendo un percorso non con le mie forze, ma che mi prosciugasse comunque di energia. Dentro una vettura che sceglie autonomamente il percorso, ma che è alimentata dalla mia forza vitale. Forse però, almeno così sento, sto rimettendo le mani su quel volante e di nuovo gli occhi sulla strada.
 Non so perchè, ma sono stato in balia delle onde. Una barca a vela sobbalzata dal vento come un fuscello di un albero durante una tramontana. Il vento si è calmato e sto piano piano prendendo la gomena e cercando di dare una direzione a questa barca. A questa macchina. A me stesso.
 Mi fa sorridere che questo momento di tempesta è arrivato in concomitanza (più o meno) con il compimento degli anni a Novembre. Sorridere perchè di solito qualche giorno prima del compleanno faccio sistematicamente i conti di quello che ho fatto e che sono diventato durante l'anno. Progetti, soldi, affetti, obiettivi eccetera. E ho capito una cosa. E questo mi ha destabilizzato credo. Che per vivere qualcosa, bisogna viverlo (life is live diceva qualcuno). Che cazzata... E' banale. Ma è così. E viverlo significa sceglierlo e andare avanti.

Fino al primo incrocio almeno.

Fino al secondo.

Al terzo.

Perchè non sai mai se la prossima strada sarà quella buona o sbagliata. Bisogna percorrerla per capirlo. Mi immagino al scena: io al centro di uno di questi incroci da film, a quattro direzioni, fermo sul ciglio della strada. In lontananza a ovest un canion rosso, si staglia su un deserto giallo sabbia. A nord una foresta verde e nera, fitta che lascia spazio all'immaginazione dei the cure. A est la strada è in discesa verso il mare blu, che definisce l'orizzonte in un misto di bianco, celeste e grigio. Finchè può perdersi lo sguardo.
E a sud la strada da cui vengo. Dietro di me la montagna. Scendo dalla macchina, apro la mappa e inizio a studiare da quale parte andare per raggiungere la meta. Fermo come un segnale stradale, sotto il sole di mezzogiorno in un esistenza fantastica. Che strada scelgo? Così ero fino a novembre.
Poi ho iniziato a lavorare su questa cosa. E ho preso la strada verso il mare. Vediamo che strada è. E vediamo dove porta. Ancora non la percorro con sicurezza. Spesso guardo negli specchietti. Troppo spesso in realtà. Anzi, guardo più negli specchietti che nel parabrezza.
Oggi sono così, guardo avanti, verso il mare, su questa strada in discesa, che lentamente mi conduce al blu. Questo incrocio è il dilemma della mia vita. Ed è strano, quando qualcuno che non ti conosce, vede attraverso i tuoi occhi che stai cercando la strada, e non sei sicuro di aver preso quella giusta, e ti dice di avere fede. Fede. Come quella che ci si mette al dito, un simbolo di comunione. Di fede. Come una promessa.
 Ma questa è un'altra storia...